Relazione del Rettore Carmine Di Ilio

Carmine Di Ilio

   Autorità tutte, Magnifici Rettori, Colleghi docenti e Tecnici  Amministrativi, cari Assegnisti, Borsisti, Dottorandi, care Studentesse, cari Studenti, Signore, Signori, graditissimi ospiti, a tutti voi che a vario titolo svolgete attività lavorativa nel nostro Ateneo porgo il più cordiale benvenuto e vi ringrazio per aver voluto condividere con noi questa importante giornata che testimonia la vostra benevola attenzione per la nostra Istituzione.

L’apertura dell’anno accademico della nostra Università ricade quest’anno in un contesto molto particolare e speciale. Cinquanta anni fa, e precisamente il 19 marzo 1966, nella sala del Consiglio Comunale di Pescara, il Rettore prof. Renato Balzarini, alla presenza dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione on. Luigi Gui tiene la cerimonia inaugurale del primo anno accademico dal riconoscimento giuridico (avvenuto l’8 maggio 1965) della Libera Università degli Studi “G. D’Annunzio”. In tale occasione, a conclusione del tormentato e lungo processo che aveva portato al riconoscimento dell’Ateneo egli ebbe a dire: Questo Ateneo è il frutto di uno slancio d’amore; quello comune della gente d’Abruzzo, nobilitato da autentico sacrificio e tradotto in azione realizzatrice dai suoi uomini rappresentativi; slancio sorretto da una fierezza radicata in una autentica civiltà, mai dimenticata o smentita, alla quale è di omaggio l’atto di fiducia dei docenti qui convenuti da varie Università Italiane, con il convincimento di chi sa di essere chiamato a seminare nei solchi di un terreno sicuramente fecondo. Oggi, in occasione del cinquantenario, desideriamo ringraziare e esprimere  gratitudine ai tanti protagonisti che hanno dato vita alla nostra breve storia, alle donne e agli uomini che con grande dedizione, impegno, passione e sacrificio, interpretando le aspirazioni della nostra popolazione, hanno creduto e voluto che in questo territorio si potesse e si dovesse istituire e far crescere l’Università.

 La nostra Università dunque, nasce dalla lungimiranza di una classe politica attenta ai bisogni e alle necessità della nostra popolazione e dalle lotte e dalle proteste che per circa cinque anni, vissuti spesso in maniera drammatica, sono state condotte dai cittadini più giovani, gli studenti desiderosi, per assicurarsi un futuro migliore, di poter continuare gli studi, accedendo all’ istruzione universitaria senza dover emigrare fuori dalla nostra regione e affrontare spese spesso insostenibili per molte famiglie. Siamo a cavallo degli anni sessanta, dunque, le lotte dei giovani abruzzesi per avere accesso all’istruzione superiore, strumento indispensabile per modificare le proprie condizioni economiche e sociali, si accompagna ad un periodo storico caratterizzato da grandi fermenti sociali, culturali e tecnologici e dal più importante processo di rinnovamento generazionale che il secolo scorso abbia mai avuto. I giovani, anche quelli che vivono in Abruzzo, diventano un soggetto politico nuovo e autonomo e con esso sia la società sia la politica deve confrontarsi in un periodo in cui l’Abruzzo-Molise versava in una condizione drammatica. A causa della forte emigrazione la popolazione residente diminuiva di circa centomila residenti di contro aumentava di più di tre milioni quella italiana. Accanto a questo calo di residenti l’Abruzzo-Molise conosceva anche un altro tipo di emigrazione quella degli studenti universitari. Era la regione che insieme alla Calabria, possedeva in quegli anni il primato dell’emigrazione degli Universitari. L’Ateneo, dunque, è nato, per dare risposte alle nuove istanze socio-economiche che la società abruzzese-molisana e meridionale in generale allora poneva consapevole che l’istituzione universitaria poteva essere motore essenziale per assicurare uno sviluppo di modernità al territorio nel quale era chiamata ad operare. Il nostro Ateneo vuole ancora svolgere questo ruolo e cioè contribuire allo sviluppo civile, culturale, sociale ed economico del nostro territorio senza rinunciare ad essere un centro di apprendimento ed insegnamento.

Superata l’euforia e la soddisfazione per il riconoscimento ci si accorge subito che le difficoltà economiche ed organizzative da superare sono notevoli. Se da un lato il successo dell’iniziativa universitaria è testimoniato dal considerevole numero degli iscritti che si registra nel corso degli anni (più di 3000 iscritti nell’anno accademico 65/66, che diventano circa 5500 nell’anno accademico successivo), le difficoltà da superare sono notevoli. Nonostante il forte impegno degli enti locali che per mezzo del consorzio interprovinciale Chieti, Teramo, Pescara finanzia la Libera Università degli studi “Gabriele D’Annunzio” le risorse economiche in bilancio si rivelarono ben presto insufficienti. L’Ateneo è privo di un apparato burocratico amministrativo adeguato ad amministrare i numerosi iscritti ai cinque corsi di laurea. Il corpo accademico deve ancora formarsi, la stragrande maggioranza dei docenti sono professori incaricati in ruolo in altre Università. L’Ateneo non possiede strutture di proprietà e gli istituti, gli uffici i servizi sono ospitati in appartamenti e magazzini inadeguati. Si è costretti in tal modo a ricorrere alla “politica dei fitti” che rappresenta per gli anni a venire l’investimento meno produttivo, peraltro esageratamente cospicuo rispetto alle esigue risorse finanziarie sia del consorzio interprovinciale sia dell’Università.

Oggi, a distanza di cinquanta anni, sommando gli iscritti ai corsi di laurea, alle scuole di specializzazione, ai master ai corsi di aggiornamento e perfezionamento e ai corsi di dottorato sono presenti in Ateneo più di 28.000 studenti un corpo docente e ricercatore formato da 664 unità e da 332  unità di personale tecnico-amministrativo. L’Ateneo possiede circa 22 ettari di terreno sul quale è distribuito un patrimonio edilizio di circa 164.000 metri quadri suddivisi per circa un/quarto a Pescara e tre/quarti a Chieti e che a valori storici vale più di 275 milioni di euro.

Nel corso di questi cinquanta anni il nostro Ateneo, passando per la statalizzazione, avvenuta all’inizio dell’ anno accademico 1982/83 e il distacco, avvenuto con l’anno accademico 1993/94, della sede di Teramo che ha dato vita ad un nuovo ed autonomo Ateneo, ha compiuto dei grandi passi in avanti nel campo della formazione e della ricerca  che ne fanno oggi una realtà importante all’interno del Sistema Universitario Italiano. L’Ateneo è al diciottesimo posto in Italia per numero di studenti regolari.

 Oggi, in uno scenario completamente mutato, quale la condizione dei nostri giovani? I giovani sono sempre meno, spesso dimenticati e mal trattati. Dopo una lunga crisi economica, caratterizzata da una significativa caduta degli investimenti produttivi specie in ricerca e sviluppo che ci tengono distanti dagli obiettivi del programma “Horizon 2020” (investire il 3% del PIL in ricerca e sviluppo) che ha approfondito il divario strutturale con gli altri paesi e mortificato la domanda di capitale umano ad alta qualificazione si registra una ripresa dei flussi migratori. In meno di dieci anni, dall’inizio della crisi più di 1,5 milioni di nostri connazionali sono emigrati all’estero. Più di centomila nell’ultimo anno. Per ogni immigrato che viene in Italia, tre concittadini se vanno. Un’emigrazione che mostra tratti diversi da quella del passato e che produrrà effetti pericolosi in un futuro non tanto lontano.

A differenza dei decenni passati, i protagonisti del ritorno all’ emigrazione di massa sono i nostri giovani, soprattutto i giovani talenti che si spostano poiché altrove trovano le condizioni per ottenere maggiori gratificazioni da molti punti di vista mentre in Italia non ancora si riesce a produrre nulla di concreto per trattenerli. Negli ultimi dieci anni è più che triplicato il numero dei giovani laureati che hanno lasciato il nostro paese per mete più appetibili. Le partenze dei nostri giovani qualificati insieme al lento e inesorabile calo demografico, che ha portato a una riduzione di oltre 2 milioni di giovani al di sotto dei 30 anni rischia di minare la salute e la tenuta economica del nostro sistema-paese in quanto inevitabilmente ne riduce la capacità di competere con le economie più sviluppate. E’ molto preoccupante che l’approfondimento delle dinamiche demografiche resti completamente fuori dal dibattito pubblico nel nostro paese. Che accadrà fra pochi decenni quando in Italia avremo una popolazione essenzialmente anziana e il resto del pianeta sarà abitato da giovani? Poiché la sostenibilità del welfare dipende dal rapporto fra anziani e attivi, senza un recupero della produttività e in assenza di una politica demografica, sarà rimessa totalmente in discussione la nostra capacità di conservare il benessere e il progresso costruiti nei secoli e di mantenere il passo con il resto del pianeta. E’ necessario fare delle scelte che non dimenticano i bisogni delle generazioni più giovani ed in particolare dei giovani Neet. I Neet, stigma di una “generazione perduta”, acronimo per indicare giovani sotto i 35 anni che non studiano, non lavorano e non seguono corsi di formazione. L’Italia è diventata la più grande fabbrica di Neet in Europa. Sono 2,4 milioni se si considerano i giovani tra i 14 e 29 anni e che aumentano a più di 3,5 milioni se si considera la fascia di età compresa tra i 14 e 34 anni. Sono aumentati del 25% dal 2008. Tutti insieme potrebbero costituire la macroregione Abruzzo, Marche e Molise. Rappresentano il 26% dei giovani Italiani, mentre la media europea è al 17%. In Germania e in Austria i ragazzi in questa condizione non superano il 10%. Quasi due milioni sono donne e più di due sono meridionali. Su dieci giovani Neet, cinque sono diplomati, mentre quattro hanno solo la licenza media e uno solo è laureato indicando nella dispersione scolastica, che nel nostro paese tocca il 15%, contro una media Europea dell’11%, insieme alla condizione economica e sociale d’origine, alla situazione familiare e personale, e al contesto economico nazionale una delle cause principali del fenomeno dei Neet. Passando dalla prima media all’ultima classe della scuola superiore si perdono il 30% dei ragazzi. Il rapporto tra immatricolati all’università su maturi è sceso dal 70% nel 2004/2005 al 65,7% nel 2009/2010 per raggiungere il 60,2% nel 2014/2015. Solo Messico e Sud Africa hanno una quota di iscrizioni all’Università inferiore alla nostra. Diminuiscono le immatricolazioni non solo per un calo demografico o per la diminuzione degli immatricolati adulti.  Un calo, negli ultimi cinque anni del 9% che a livello nazionale valgono più di 27.000 giovani (e come se la nostra università fosse di colpo sparita) che hanno rinunciato agli studi Universitari contribuendo a far precipitare l’Italia agli ultimi posti tra le nazioni OCSE per quanto riguarda la percentuale di laureati nella fascia compresa fra 25-34 anni. Negli ultimi dieci anni, i laureati sono diminuiti di quasi il 13%. Ciò avviene in concomitanza con una forte riduzione del personale docente e tecnico amministrativo (circa il 17%), con una contrazione dei finanziamenti ordinari che lo stato versa agli Atenei che in termini reali vale più del 20% e con una spesa statale per il diritto allo studio ferma a dieci anni fa e che solo in quest’ultimo anno trova nell’azione del governo timidi segnali di attenzione. In Italia dunque, in controtendenza rispetto a molti altri paesi avanzati sembra si sia deciso di disinvestire nei giovani e nella sua Università. Mentre in Italia la spesa universitaria si contraeva del 22%, in Germania saliva del 23%. Un confronto impietoso che rende molto preoccupante l’orizzonte prospettico del sistema  delle Università specie per quelle del sud. Ma siamo tutti consapevoli di vivere all’interno di un periodo storico in cui i cambiamenti in corso chiedono che ci sia un investimento qualitativo sulle giovani generazioni non solo per migliorare la condizione dei giovani stessi ma perché rappresentano all’interno della nostra società una risorsa che produce ricchezza e benessere. Tutti sappiamo che e stretta la relazione tra investimento in ricerca, sviluppo, innovazione e politiche attive, che permettono ai giovani di essere attivamente presenti nel mercato del lavoro e non dipendere dai propri genitori. Oggi pesa la crisi economica, molte famiglie non riescono a sopportare il costo di mandare i propri figli all’università anche perché manca ancora una solida politica del diritto allo studio da parte delle istituzioni pubbliche. Tuttavia, la ragione principale va identificata proprio nella promessa mancata sul lavoro, nel tradimento alle giovani generazioni, anche ai laureati, ai quali si propone una tragica alternativa tra precarizzazione, marginalizzazione, e fuga. In Italia, secondo Eurostat, a tre anni dalla laurea, trova lavoro il 52,9% dei laureati, quasi uno su due. Una percentuale decisamente molto bassa soprattutto se la paragoniamo alla media dei laureati europei dove trova lavoro, a 3 anni dalla laurea, l’85,5% degli studenti. A che serve studiare all’università per un giovane che a venticinque anni si troverebbe senza un lavoro all’altezza delle competenze acquisite e che a trenta, in assenza di un adeguata protezione familiare, non avrebbe un reddito che garantisca una vita dignitosa. Studiare all’università non sembra più essere fattore di riequilibrio per ragazzi provenienti da famiglie più svantaggiate economicamente. Tra il 2006 e il 2014 il tasso di occupazione dei giovani provenienti da famiglie meno favorite si è ridotto di dieci punti percentuali a fronte di una riduzione di tre punti percentuali per giovani provenienti da famiglie più favorite. Le diseguaglianze sociali dunque, anziché diminuire tendono a riprodursi lacerando i meccanismi della coesione sociale. Questi giovani pagano alla crisi, e all’incapacità del sistema educativo lo scotto più alto: l’esclusione sociale. Giovani che non hanno sviluppato le competenze richieste dal mercato del lavoro o che non possono usarle in modo produttivo.  Questi giovani avranno un futuro difficile. E’ urgente mettere in campo una strategia efficace e di emergenza per combattere il fenomeno dei Neet. Più che di stanche promesse e poco efficienti interventi abbiamo bisogno di terapie d’urto e programmi di emergenza. Significa rimettere mano a un sistema formativo povero di competenze e varare un insieme di politiche più idonee. Un sistema che coinvolga in modo sistematico scuola, università, famiglia, istituzioni pubbliche e private territoriali e che crei un ambiente favorevole al recupero di questi giovani prima che diventino del tutto “inattivi” andando a ingrossare le fila di una “generazione perduta” come vengono ormai definiti dai tanti istituti di ricerca per raccontare una deriva molto grande, in termini di perdite economiche e di spreco di capitale umano. Un costo per la collettività di questo mancato investimento che varia secondo una ricerca dell’associazione We World tra 1.4% e il 6.8% del Pil. In questo difficile scenario comunque sono di conforto i dati che indicano che nel secondo trimestre del 2015 più di trentamila imprese sono state aperte e guidate dai “millenial”, cioè dai ragazzi nati dopo il 1980, suggerendo una capacità e una vitalità che aspetta solo di essere riconosciuta, ben indirizzata e supportata. E’ chiaro che se si limitano gli investimenti e si riduce la spesa per il lavoro e l’istruzione, si inviano segnali di scarsa attenzione e fiducia nei nostri giovani, non si guarda con attenzione al futuro ci si avvia verso un inesorabile declino. Si riuscirà con l’estensione ai giovani compresi fra i 25-29 anni di età e con la proroga fino al 2020, del programma di aiuti europei denominato “garanzia giovani”, che non ha ancora dato i risultati sperati, a contrastare il fenomeno dei Neet? Saprà il jobs act abbattere in maniera incisiva la soglia di disoccupazione giovanile favorendo al tempo stesso una maggiore competitività delle nostre imprese? Ci auguriamo di si. Il sistema universitario pubblico non è esente da responsabilità. Le Università devono cambiare e fare la propria parte. Devono prepararsi, attrezzarsi, rivitalizzarsi per formare giovani in un mondo che cambia con grande velocità. In un mondo dove le logiche del lavoro saranno diverse da quelle di oggi, dove i mestieri che implicano competenze intellettuali e conoscenze specifiche saranno sempre più richieste e dove molte delle figure professionali alle quali oggi siamo abituati non avranno più spazio e per le quali non è più necessario organizzare corsi universitari (c’è da chiedersi, stiamo forse preparando persone per mestieri che fra qualche decennio non ci saranno più ignorando quelli futuri?). Per quanto si può prevedere, nei paesi avanzati, le future attività economiche avranno sempre più necessità di un mix di tecnologia digitale spinta e di utilizzo di personale molto qualificato, che possiede buone competenze di base (in grado di aggiornarle costantemente), per svolgere mansioni differenziate, non ripetitive e creative. La capacità delle Università di potersi adeguare velocemente ai mutamenti della realtà assecondando i nuovi bisogni di una società che richiede in continuazione figure professionali duttili e dotate di un alto grado di competenze intellettuali, ed essere in grado di elaborare sapere scientifico innovativo è però poco compatibile con un sistema formativo pubblico depotenziato e molto burocratizzato, rigido e ingessato da un groviglio di interventi normativi e disposizioni attuative, di regolamenti, di decreti ministeriali tanto complessi nella forma e spesso difficili da comprendere e attuare come sono quelle che governano il sistema universitario post riforma “Gelmini”.  Una Università preda di una burocratizzazione eccessiva, parificata ad una qualsiasi amministrazione pubblica, e alla quale si chiede al contempo competitività e rapidità di reazioni alle sfide del mondo contemporaneo, difficilmente potrà contribuire a risollevare le sorti del paese. Per scuola e Università, per tornare a essere propulsori fondamentali dello sviluppo, servono provvedimenti che consentono di superare il modello burocratico e centralista e adottare un’organizzazione autonoma che abbia in se la flessibilità necessaria per dare risposte rapide ai profondi mutamenti della società. Questo non significa volersi sottrarre alla valutazione alla quale affidare il controllo di un uso corretto e responsabile dell’Autonomia.

Al nostro Ateneo non è mai venuto meno il costante impegno nel rafforzare le relazioni tra sistema accademico e mondo produttivo per favorire l’inserimento dei nostri giovani nel mondo del lavoro o per la creazione di nuove imprese. Impegno che ha consentito l’attivazione di relazioni stabili con più di cinquecento imprese del territorio locale. Secondo il rapporto Alma Laurea gli studenti che a conclusione degli studi, a parità di ogni altra condizione, vantano nel proprio curriculum un periodo di stage presso aziende, hanno il 10% in più di trovare lavoro rispetto a chi non vanta tale esperienza formativa. In questo ultimo anno, inoltre, l’attenzione verso la condizione studentesca si è realizzata sia mediante l’apertura continuativa di sale di studio sia con l’adozione concordata di una più articolata (ne sono state identificate otto) graduatoria di fasce di reddito. Si tratta di un intervento che, senza porsi l’obiettivo di aumentare il gettito, può abbattere al 100% la contribuzione per gli studenti bravi e appartenenti a famiglie con redditi bassi. Siamo convinti, per invertire la riduzione della presenza nell’Università di giovani provenienti da famiglie non privilegiate, dobbiamo porre grande attenzione alla realtà socio-economica degli studenti che chiedono di formarsi nel nostro Ateneo.

Per aiutare i nostri laureati con idea di impresa ad identificare i primi supporti finanziari, partecipiamo, con uno sportello di orientamento, al progetto Microwork promosso dall’ente nazionale micro-credito. In ragione del lavoro svolto il nostro Ateneo è stato inserito in un gruppo di diciotto università chiamate ad intervenire al tavolo di lavoro con l’ANVUR per la definizione di un sistema di indicatori a livello nazionale da inserire nel sistema di valutazione delle Università.

Migliorare l’efficienza è la qualità dei servizi agli studenti, guadagnarci la fiducia dei nostri giovani e delle loro famiglie, del sistema produttivo del nostro territorio delle istituzioni pubbliche che guidano i processi socio-economici della nostra comunità deve essere un nostro costante e irrinunciabile impegno. Un impegno che, con grande spirito di collaborazione, nonostante i sacrifici che il sistema paese sta chiedendo al mondo universitario, deve essere profuso da tutto il personale del nostro Ateneo sia docente sia tecnico-amministrativo. Sacrifici che sono molto gravosi, in particolare per il personale tecnico amministrativo che dal 2010 sopporta il blocco contrattuale e le forti limitazioni imposte dalle leggi di stabilità al salario accessorio che fortemente riducono il potere d’acquisto dei lavoratori e che sono fonti di tensioni nelle relazioni sindacali nel nostro Ateneo.

Il nostro bilancio di previsione, il primo di tipo economico-patrimoniale, che presenta un fondo di dotazione di 80 milioni di euro e un patrimonio disponibile di più di 100 milioni di euro testimonia che la nostra istituzione è solida e che pertanto possiamo guardare con fiducia al futuro prossimo dell’ Ateneo. Ciò se sapremo, facendo molta attenzione agli equilibri economici, utilizzare il buon risultato ottenuto anche quest’anno in quota premiale, ossia un aumento di circa il 5% di risorse statali rispetto allo scorso anno. L’indicatore di sostenibilità economica e finanziaria (ISEF), che costituisce il parametro che il MIUR utilizza per il recupero del turnover e per misurare la sostenibilità dei corsi di studio, continua a essere positivo, collocandoci tra le Università beneficiarie di una dotazione di punti organici superiore al valore del nostro turnover. Una condizione che ci permetterà di continuare, attraverso un percorso di reclutamento trasparente e attento al merito, un recupero importante degli organici sia di personale tecnico-amministrativo sia docente. Le risorse acquisite in maniera premiale dovranno servire sia a migliorare la nostra attività di ricerca in funzione dei prossimi esercizi di valutazione scientifica nazionale, sia a potenziare e consolidare l’offerta didattica, che per l’anno accademico 2015/2016 si sostanzia in cinquantatre corsi di studio e che non si è contratta rispetto all’anno precedente in virtù di una più razionale utilizzazione delle risorse. All’interno del panorama italiano segnato, in questi ultimi anni da un calo delle immatricolazioni, la sostanziale tenuta della nostra Università, (a oggi le nostre matricole sono più di 6000 , rappresenta un segnale confortante della nostra attrattività.  

Alla ricerca scientifica e alla formazione di giovani ricercatori, che continua a costituire un impegno primario del nostro Ateneo, abbiamo, sul fronte del finanziamento interno, dedicato 3 milioni di euro (come quota ex 60%). Al reclutamento dei giovani sono stati destinati altri 3 milioni di euro che potranno essere utilizzati dai dipartimenti per finanziare sia assegni di ricerca sia ricercatori di tipo a. Inoltre, a supporto dei nove corsi di dottorato (di cui due industriali) sono stati messi in bilancio 3.5 milioni di euro che andranno a finanziare circa 240 borse di cui quindici assegnate a studenti stranieri.

Giova inoltre ricordare che nel corso del 2015 sono stati assunti tredici ricercatori a tempo determinato di tipo b e avviate le procedure concorsuali per assumerne altri tre. Attualmente, sono 115 i giovani assegnisti di ricerca impegnati in Ateneo. All’impegno dei nostri giovani ricercatori va dato il merito di aver prodotto 46 brevetti di cui tre con estensione d’impresa e dato vita a 12 spin off.

Uno sforzo enorme a supporto della ricerca e dei nostri giovani ricercatori in particolare, nella convinzione più profonda che ciò rappresenta un investimento per il futuro del nostro Ateneo in grado di migliorare la nostra competitività scientifica nazionale e internazionale e avere ricadute positive in campo applicativo.

Avviandomi alla conclusione ai giovani e alle loro famiglie voglio dire di avere  fiducia nell’Università anche se per quelli che hanno difficoltà a trovare lavoro, l’idea di proseguire gli studi e raramente considerata come un investimento che potrebbe migliorare le loro opportunità di successo nel mercato del lavoro. Ma io, insieme a molti di voi, sono convinto che il modo migliore per affrontare il futuro sia di puntare sull’alta formazione sia scientifica che umanistica che solo l’università può dare; l’università un luogo di avventura umana, dove accettando la sfida dello studio si ha una grande opportunità di crescita personale e collettiva, un luogo dove si esercita la libertà di pensiero e dove attraverso il confronto con altre culture si impara ad essere cittadini del mondo.

Agli adulti voglio ricordare, con George Bernanos, che è la febbre della gioventù che mantiene il resto del mondo alla temperatura normale. Quando la gioventù si raffredda, il resto del mondo batte i denti.

Dichiaro con ciò ufficialmente aperto l’anno accademico 2015/2016 dell’Università degli studi “Gabriele D’Annunzio” 50° dalla sua fondazione.